EGITTO - Il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly ha designato il prossimo giovedì come giorno libero retribuito per il decimo anniversario della Rivoluzione del 25 gennaio e per la Giornata della polizia egiziana.
Lo riferiscono i media egiziani dando conto della decisione di unire due anniversari tra loro diversi: la Rivoluzione del 25 gennaio fa riferimento alle sollevazioni di piazza Tahrir che portarono alla caduta, dieci anni fa, dell’allora capo di Stato Hosni Mubarak; la Giornata della polizia commemora invece la resistenza della polizia egiziana alle forze britanniche a Ismailia nel 1952. L’Egitto ha deciso di spostare a giovedì le commemorazioni ufficiali dei due eventi offrendo in questo modo un fine settimana più lungo ai cittadini.
L’imponenza dell’Egitto viene dai numeri, dalle dimensioni delle opere che hanno reso questa regione nota da millenni, dalla sua storia. La Cairo che si estende a dismisura all’ombra della Sfinge, segue percorsi lineari come il Nilo e allo stesso tempo complessi come il reticolo di canali e di rami del suo delta.
Lineare è stata la storia politica recente, con un passaggio di consegne che ha sempre visto l’esercito reggere direttamente o meno il Paese. Perfino durante la breve parentesi dei Fratelli musulmani - tra il 2012 e il 2013 - l’esercito è comunque rimasto ben desto dietro le quinte, intervenendo manu militari quando riteneva opportuno. Da Gamal Abdul Nasser, passando per Anwar Sadat e Hosni Mubarak, fino all’attuale capo di Stato Abd al-Fattah al-Sisi, l’esercito ha regolato la vita politica ed economica dell’Egitto. Dal 2011, anno della cosiddetta Primavera araba e delle dimissioni forzate di Mubarak, c’è stato spazio solo per fugaci figure di transizione e per un anno di presidenza ai Fratelli musulmani con Mohammed Morsi.
L’intervento militare del 2013, spalleggiato da una parte della “piazza”, ha portato Morsi in carcere e i Fratelli musulmani a subire una delle più pesanti repressioni dalla sua nascita. Le elezioni tenute nel 2014 hanno alla fine sancito l’avvio ufficiale della presidenza di al-Sisi che intanto aveva lasciato le stellette da capo di stato maggiore per la cravatta da presidente.
Oggi i Fratelli musulmani sono apparentemente allo sbando, i leader in prigione, il resto dell’opposizione costretta in spazi ridotti. Ma le grandi questioni che avevano alimentato le rivolte del 2011 sono per lo più intatte.
Adel Jabbar, sociologo e saggista iracheno che da tempo vive in Italia, ha usato un’immagine molto chiara nel 2011 per spiegare la prima fase delle rivolte. Dice Jabbar: “Immaginiamo un triangolo che abbia su un lato il dispotismo secolare che si è fatto forte della paura della gente, sul secondo il fanatismo religioso che non è riuscito a costruire un progetto valido e sul terzo le ingerenze di Paesi stranieri che hanno sostenuto governi corrotti e ingiusti: ecco, la società araba è stata negli ultimi 30 anni prigioniera all’interno di questo triangolo che ora sta scuotendo”.
Il triangolo disegnato da Jabbar trova un corrispettivo nelle parole chiave delle sollevazioni popolari: libertà, giustizia e dignità hanno segnato cori e slogan un po’ dappertutto declinandosi di volta in volta in maniera diversa rispetto alle situazioni particolari di ogni Paese.
In Egitto il 2011 apre una fase di grandi speranze. Nei giorni immediatamente successivi alle dimissioni di Mubarak, le strade intorno a Piazza Tahrir pullulavano di giovani che parlavano di politica e di futuro, i caffè erano stracolmi fino a notte fonda, la piazza era diventata una vera agorà di dibattito politico. Questa atmosfera e queste libertà, fatte le debite differenze, sono rimaste in Tunisia; in Egitto ma anche in Tunisia, oggi, il punto è tornato a essere la sopravvivenza, il quotidiano.
L’Egitto ha però dalla sua parte risorse (gas), una popolazione che supera i 100 milioni di abitanti, un peso politico regionale di rilievo. E, su spinte delle istituzioni finanziarie internazionali, in particolare il Fondo monetario internazionale, ha avviato un percorso di riforme, ribaltando vecchie politiche (fine dei sussidi, liberalizzazione del tasso di cambio), e un programma di sviluppo infrastrutturale imponente che prevede tra le altre cose la creazione di una nuova capitale. [MS]